Abbiate pietà di me ma il titolo voleva solo essere una trappola.
Una trappola tesa a fin di bene per dirottare l’attenzione su una terribile vicenda: la morte di Andy Rocchelli e del suo collega giornalista/interprete italo-russo Andrej Mironov.
Ormai è passata quasi una settimana e in molti ne avrete già letto e sentito parlare.
Sarebbe quindi inutile soffermarsi sui dettagli dell’accaduto, tutti saprete che ad ucciderli è stato un colpo di mortaio sparato all’interno di quella che è diventata la zona più calda d’Europa, ossia quella tra Russia e Ucraina.
Andy non era il fotografo che giocava a fare la guerra, si trovava lì mosso dalla grande passione per il suo lavoro e perché da anni tornava periodicamente in quelle zone – Russia, Daghestan, Cecenia fra tutte – seguendone i cambiamenti e gli sviluppi.
Nel 2008 aveva fondato, assieme ad altri (Arianna Arcara, Gabriele Micalizzi, Alessandro Sala e Luca Santese), CESURA, un collettivo di fotoreporter provenienti tutti dalla scuola di Alex Majoli, presidente di Magnum, per il quale avevano lavorato.
Chiaramente quel minimo di nazionalismo che ci rimane ha fatto echeggiare la notizia ovunque, tanto che se scrivete su Google “fotoreporter ucciso” i risultati non vi daranno altro che questo.
Ma se a cadere sul campo fosse stato un fotografo di un’altra nazione, se ne sarebbe parlato in questo modo? O meglio ancora, se ne sarebbe parlato?
Qualcosa mi dice di no, perché, dati alla mano, mi sembra che nessun telegiornale o quotidiano nazionale abbia parlato di Camille Lepage uccisa nella Repubblica Centrafricana, Anja Niedringhaus morta in Afghanistan o di Molhem Barakat, Rémi Ochlik e di Olivier Voisin deceduti durante la guerra civile siriana e questi sono solo gli ultimi di cui sono a conoscenza.
Tralasciando il caso “nostrano”, non capisco come sia possibile che la morte di esseri umani impegnati nella documentazione fotografica della storia contemporanea possa lasciare tanta indifferenza.
Non capisco perché un eccellente fotoreporter come Rocchelli possa emergere solo dopo un così triste avvenimento.
Ma capisco la passione che spinge moltissimi fotografi ad andare in quelle zone devastate dai conflitti, nonostante le foto portate in redazione vengano pagate una miseria.
Forse tutto questo è sintomatico, esprime lo stato di salute del settore e la considerazione che le testate giornalistiche ripongono in esso, non capendo che, dal punto di vista comunicativo, senza quelle fotografie, il loro prodotto non sarebbe lo stesso.
Forse è solo la frustrazione a parlare.
La frustrazione di una persona che ama la fotografia e che ne ha diagnosticato un enorme tumore al suo interno. E che vorrebbe solo ci fosse una cura.
Avrei voluto conoscere tutti questi nomi in circostanze totalmente diverse, un po’, sicuramente, è dovuto alla mia ignoranza, ma non credo di essere il solo colpevole.
Ora come ora, noi di Iso400 , l’unica cosa che possiamo fare è quella di stringerci attorno alle famiglie di Andy, Andrej, Camille, Anja, Molhem, Rémi e Olivier, sperando che questa lista non si allunghi per molto, molto tempo.
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