Avete notato come ultimamente sembra tornata in voga l’usanza di colorare vecchie fotografie in bianco e nero, si tratta molte volte di scatti di notevole importanza, che magari sono comparsi sui libri di scuola, quindi, perché colorarli cambiando così l’essenza dell’immagine?
Vero è che le pellicole negative a colori inizialmente furono utilizzate per immortalare gli scontri bellici (in primis la Prima Guerra Mondiale) e arrivarono sul mercato con Kodak soltanto durante gli anni ’30 del ventesimo secolo.
Quindi è anche vero che per un fotografo dell’epoca la scelta monocromatica era pressoché l’unica possibile.
Prima di tutto ci tengo a precisare che la tecnica di colorazione delle fotografie non è di certo recente, nacque, quasi in contemporanea alle fotografie all’albumina, attorno al 1855 in Giappone, fino a scomparire attorno al 1910 con la nascita di altri tipi di supporto.
Le fotografie all’albumina, grazie al loro tipico color seppia, si prestavano particolarmente a questa tecnica che univa le nuove tecnologie alla pittura tradizionale.
Il Giappone ne fu il precursore e queste vere e proprie opere d’arte venivano viste dagli europei, in visita nel paese del Sol Levante, come souvenir.
Souvenir molto cari, che più il tempo passava e più raffiguravano un territorio surreale, che non esisteva più, tanto che i fotografi erano costretti a ricreare quegli scenari stereotipati in studio solo per accontentare i loro clienti.
La tecnica della colorazione a mano si diffuse anche in altri paesi europei, ma il livello raggiunto degli artisti operanti in Giappone – primo fra tutti il fotografo italo-britannico Felice Beato – rimase ineguagliabile, tanto che, in alcuni casi, distinguerle con delle fotografie a colori risulta pressoché impossibile.
Dopo questo doveroso cenno storico, volgo la mia riflessione – che per qualcuno potrà sembrare polemica – alla colorazione attuata ai giorni nostri, quella fatta con Photoshop, tanto per intenderci.
È ormai assodato che, per governare i comandi del celebre software di photoediting, ci vogliano notevoli competenze e conoscenze e che quindi anche la pratica di colorazione fotografica ne richieda.
Ma la questione risiede qui: se nel diciannovesimo e ventesimo secolo lo scopo di tale pratica era principalmente quello turistico-economico, oggi qual è?
Se allora le fotografie colorate a mano erano considerate opere d’arte, oggi è possibile innalzarle a tale livello?
Inoltre, siamo davvero così sfrontati e irrispettosi da poterci permettere di colorare fotografie di cui non deteniamo i diritti? E soprattutto, è una vera esigenza quella di dover necessariamente vedere il mondo che fu a colori?
Tutte domande a cui è difficile rispondere o alle quali si potrebbe rispondere in milioni di modi.
Sono consapevole però di una cosa, “il trucco in linea di massima mi ha sempre infastidito, mi impedisce di scorgere i veri lineamenti di un volto, di studiarne gli occhi e le espressioni”.
Ora provo a rispondermi da solo, fatelo anche voi.
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