« Et lui dovemo adorare et non questo legno. »
(Lando di Pietro, iscrizione all’interno della testa di un crocefisso ligneo, 1337)
Questa citazione è presa così com’è dalla pagina “iconoclastia” di Wikipedia. L’esortazione figura e concretizza il concetto che voglio esprimere in questo spazio.
In questo momento della vita mi sento iconoclasta, infastidito e a volte esasperato dalla santificazione di oggetti o creazioni umane al di sopra dell’azione stessa. Conta più il prodotto “artistico” o conta più il produrre per fare “arte”? È sano santificare i capolavori ed ergersi a talebani difensori dell’integralismo contro la lesa maestà?
La fotografia può soffrire fortemente dell’adorazione degli scatti, è un rischio più presente che nelle altre arti poiché la perfetta rappresentazione e verosimiglianza della realtà nella fotografia (merito molto della scienza e della tecnica prima dell’azione) tende ad affascinare quindi a far innamorare quindi a farsi adorare e idolatrare.
Ho sempre pensato che un capolavoro è tale nel momento in cui riesce ad impartire da uno stesso prodotto finale (sia un quadro, un romanzo, una fotografia, un film) infinite o innumerevoli lezioni, spunti, punti di partenza ed interpretazioni.
L’opera d’arte è densa di significati che le vengono attribuiti mentre il supporto fisico o astratto su cui prende vita nella realtà è solo un supporto, un modo di venire percepita da tutti.
I significati li trae l’uomo, ognuno a suo modo. Un’opera avrà diverso valore per ogni individuo e avrà diverso valore nel tempo e nello spazio geografico. Cosa è stato disprezzato può venire riconosciuto capolavoro più avanti nel tempo e decadere nel dimenticatoio successivamente.
Per questo mi infastidisce molto leggere o sentir dire che non ci si deve prendere il diritto di “rovinare” modificando una grande opera.
Un capolavoro fotografico è tale se scatena la voglia di creare, di imitare, modificare, parodiare, rompere o interpretare.
Invito tutti quindi a prendere qualunque famoso capolavoro e lavorarci in ogni modo facendo incazzare i boriosi che vorrebbero l’opera in una teca asettica e guardata da lontano.
Distinguiamo però l’opera dal supporto fisico o astratto che la ospita: non vi invito ad andare a devastare gli originali nelle collezioni o nei musei, quelli devono essere mantenuti integri e conservati, vi invito ad un’iconoclastia che non è diretta al materiale ma al capolavoro che come tale esiste e si muove per il mondo in infinite forme.
La fotografia analogica soffre molto del male dell’idolatria della pellicola. Un feticismo rivolto ai sali prima ancora che all’opera ed ai capolavori che per più di un secolo schiere di uomini prima ancora che artisti o fotografi hanno creato e donato a tutti.
Anche la legge riconosce il diritto alla parodia di esistere “a sé” senza autorizzazione dell’autore della creazione parodiata.
Non dico che tutto il frutto di questa nuova creazione sarà arte o che avrà valore maggiore rispetto al capolavoro di partenza, ed aggiungo che un capolavoro non perde mai nulla quando viene utilizzato e modificato.
Inoltre, una reinterpretazione prevede una prima fase di conoscenza del capolavoro, quindi l’iconoclastia è sempre preceduta dal sapere.
Sul sasso che rotola non cresce mai il muschio e allora fate rotolare i capolavori.
L’adorazione di oggetti inoltre fa sì che i custodi di questi (spesso custodi autonominatosi, senza titoli per esserlo veramente) si ergano a paladini difensori pretendendo di decidere cosa è giusto e cosa non lo è. Uomini che si ergono al di sopra di altri uomini perché pensano di custodire più sapere e quindi si prendono più potere. Succede nelle religioni con i sacerdoti, non c’è bisogno di avere sacerdoti fotografici che si auto-santificano.
Le opere da me realizzate e qui presenti sono volutamente provocatorie (ed anche un po’ fatte male), fatene buon uso.
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