Siamo figli di una generazione pirandelliana, i nostri armadi strabordano di una variopinta collezione di “maschere”.
Quando poi rivoltiamo i dispositivi fotografici verso noi stessi o anche quando ci facciamo ritrarre da qualcun altro, le cose si complicano ulteriormente e così i nostri volti si stratificano, ospitando via via una moltitudine di maschere che, una dopo l’altra, si sovrappongono.
Perciò ritrarsi, o farsi ritrarre, per quello che si è risulta apparentemente impossibile, nel novanta per cento dei casi sui volti dei soggetti appariranno finti sorrisi, come a voler dire “guarda come sono felice!”, “guarda come mi sto divertendo!”.
Ugo Mulas, già a cavallo tra il 1969 e il 1972, intraprese un lavoro concettuale denominato Le verifiche e in particolare in una di queste, quella dedicata ai Fratelli Alinari, si soffermò sul tema dell’uso della fotografia e di come l’utilizzo di un’immagine piuttosto che un’altra, possa cambiare di parecchio il senso di ciò che raccontiamo.
In quel caso la foto in questione era quella che ritraeva il re Vittorio Emanuele II. In questa doppia immagine su singola lastra (riprendendo le parole di Mulas) abbiamo due ritratti, da un lato un re camuffato dai ritocchi e dall’aspetto eroico, dall’altro un re vecchio, con le borse sotto gli occhi e mummificato dall’età.
Si tratta quindi di due immagini che possono sembrare simili, ma che in realtà sono agli antipodi, come se fossimo “davanti al vero e alla sua falsificazione indici di un atteggiamento che è poi l’uso della fotografia: la storia vera, che resta negli archivi, e quella abbellita, cattivante, gradevole che viene diffusa”.
A distanza di vari decenni il succo del problema rimane lo stesso, cambiano solo i mezzi e i supporti con la quale questi messaggi vengono divulgati e mostrati al pubblico.
Quindi, se avessimo accesso ai sistemi di archiviazione dei nostri pc (o a quelli di uno sconosciuto) o dei nostri smartphone e potessimo vedere i provini degli autoritratti (o dei ritratti) siamo sicuri che non ci troveremmo davanti ad un problema simile a quello che si pose Mulas più di quarant’anni fa?
Perché non provare a caricare immagini che rispecchino il nostro stato d’animo al momento dello scatto?
Perché mostrare a terzi solo dei giovani, graziosi e felici faccioni e non invece i nostri stropicciati, “struccati” e tristi volti che ci portiamo appresso tutti i giorni?
La questione tocca molti aspetti socio-antropologici dell’epoca in cui viviamo e non sta a me tirare le somme, il lato positivo dei pensieri (intesi come ideologie) è che ognuno ha i propri.
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