Pastoral.
Vivere nel limbo del mondo, a metà distanza tra il centro abitato e il nulla più totale.
La mente si perde, non ci sono punti cardinali, non esistono gli orologi, né tanto meno i calendari.
Non ci sono stagioni e se ci fossero, cosa cambierebbe?
Per farla breve potremmo dire: perdere letteralmente la bussola.
La mente sgombra lascia che il paesaggio culli i nostri occhi.
Fa sì che la natura prenda il sopravvento. Su tutto.
Sui corpi intirizziti dal vento gelido, o scaldati dalla fiamma di un falò. Sul mix di calcestruzzo e ferro che si erige per diciassette piani e si dispone ripetutamente sul terreno occupandone con prepotenza l’orizzonte.
Sui ponti, collegamento materico che porta fuori da questo limbo.
Ma chi vuole uscire?
Ci passerei l’eternità.
Le palpebre socchiuse e riaperte.
Nel giro di qualche millesimo di secondo si palesa davanti il regno del verde, dell’accadueo, dei giganti in cemento armato e della spensieratezza – e per quest’ultima sembra che i russi abbiano molto da insegnare.
Nel limbo il mondo sembra fermarsi, come se qualcuno, tutto ad un tratto, avesse azionato un meccanismo per fermare il tempo, per immobilizzare qualsiasi cosa, eccetto i suoi abitanti.
Ogni tanto un pallido sole buca le dense nubi sopra le loro teste.
Altre volte sembra spuntare da dietro la ciminiera di qualche fonderia.
Più spesso invece filtra tra gli alberi, ma, ancora più spesso, è assente.
Il grigio prevale, sempre. Col cielo terso o plumbeo, non importa.
Altre volte il limbo si guarda allo specchio e appare riflesso ai nostri occhi.
Sembra piacersi e sembra compiaciuto. Quasi come dire: “che bel vestito che ho messo oggi!”.
In caduta libera o in salita, in piano o appesi a un filo, è un mondo che va un po’ come gli pare.
Senza regole e senza limiti.
Senza restrizioni.
Né leggi.
Credo.
Bo.
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