Selfie
(also selfy)
informal: A photograph that one has taken of oneself, typically one taken with a smartphone or webcam and uploaded to a social media website.
La recente definizione data dall’Oxford Dictionaries sembra chiarire le idee a tutti, semplice, concisa e azzeccata.
In Italia poi la confusione (confusione a voler essere buono) regna come sempre sovrana, c’è chi usa questo termine al maschile e chi invece al femminile.
Insomma sappiamo sempre come complicarci la vita, noi.
Vorrei star qui a dirvi a quando risale il primo selfie della storia, a quando questo termine si presume sia comparso per la prima volta sui social network e che, il sopracitato, Oxford Dictionaries l’ha classificata come parola dell’anno duemilatredici. Ma a noi di tutte queste zozzerie ci importa poco e, soprattutto, il nocciolo della riflessione vuol essere un altro.
Il fenomeno è sicuramente di massa e, a parer mio, ad essere colpito è il valore morale di questa pratica e da qui, volendo fare gli intellettuali, si potrebbe partire analizzando i cambiamenti sociali che ne derivano.
Azioni come: soffermarsi sui dettagli, godersi i profumi nell’aria; sedersi per un istante a pensare, scrivere, a chiudere gli occhi e a fantasticare. Camminare ed essere pervasi dai sensi, apprezzando ciò che ci circonda, sembrano essere sull’orlo dell’estinzione, alla pari di lupi, tartarughe e pinguini.
Queste diventano così virtù per artisti, coloro che, forse, riescono ancora a godersi il mondo.
Capisco che la vita non ci dà tregua e il tempo libero scarseggia.
Capisco anche che siamo spesso di corsa, ma non capisco com’è possibile che il tempo per scrollare la bacheca di Facebook e di Instagram non manchi mai.
Come non manca mai il tempo per girare lo smartphone e per ritrarci assieme alle persone con cui stiamo, di fianco a ciò che stiamo visitando, ma anche da soli, a lavoro, a casa, mentre prepariamo la cena o chissà in quale altro stramaledetto posto.
È come se corressimo per tutta la giornata per poi arrivare in tempo sui social network, spendendoci magari delle ore. Ma d’altronde, in qualsiasi modo la si gira, la giornata sempre ventiquattro ne ha.
Ho come l’impressione che nell’era pre-smartphone fossimo più rilassati e ci godessimo di più tutte queste cose, senza avere per forza l’obbligo – e il suo utilizzo non è casuale – di doverci ritrarre ogni tot secondi.
Ma ora torniamo al rumorosissimo “caso-selfie”.
Fino a non molti anni fa, quando pensavo all’autoritratto, pensavo a quello d’Autore, quello fatto con veri apparecchi fotografici, non che questi da soli diano credibilità.
Pensavo alla Woodman, ai sentimenti e alle persone che li esternavano mediante questa intensa e difficile pratica.
Pensavo che per auto-fotografarsi servissero dei validi motivi, un grosso trauma interiore per esempio, in modo tale da comunicare forti emozioni all’osservatore.
Pensavo, pensavo, pensavo.
Forse penso troppo, ecco.
Solo un’ultima cosa mi preme dire: prima di premere per l’ennesima volta quel pulsante, facciamoci una domanda “(con questa foto) ho qualcosa di utile da trasmettere al mondo?”.
Poi la scelta, se premerlo o meno, spetta a noi.
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